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Una parte di Simone era arrabbiata con se stesso. Se fosse stato zitto, se non avesse detto nulla, probabilmente Mimmo non sarebbe dovuto scomparire.
Mentre lo guardava sparire dietro il finestrino oscurato dell’auto, e poi per le strade di Roma, poteva sentire un fischio nella sua testa, sempre più forte, che oscurava ogni singolo altro pensiero.
Il sole caldo di novembre era insopportabile in quel momento. Nonostante fosse autunno, sembrava che l’estate non volesse abbandonare la città, facendolo sudare sotto la giacca marrone. Sentiva ancora la presa disperata del ragazzo sulle sue spalle, il tocco delicato mentre gli diceva che sarebbe dovuto scomparire.
Mimmo era morto nel momento in cui aveva messo piede nell’auto. Al suo posto era comparso qualcun altro, con lo stesso viso e la stessa voce, ma era diventato un’altra persona. Qualcuno che Simone non avrebbe potuto conoscere.
Non ci era riuscito nemmeno per quei pochi mesi. Aveva visto solo uno spiraglio di quello che Mimmo era, eppure gli era bastato per innamorarsene. Era diverso da quello che aveva provato con Manuel, quello che considerava il suo migliore amico. Era una sensazione piacevole, come Favonio, il vento della primavera.
Si era lasciato trasportare come uno sciocco, ma non aveva potuto farne a meno. All’inizio voleva solo far ingelosire Manuel, prenderlo in giro per come si era comportato l’anno precedente, ma Mimmo era davvero una persona carina.
Suo padre, per quanto fosse un bastardo infingardo e traditore, aveva occhio per i “casi disperati”, e Mimmo non faceva eccezione, ma aveva qualcosa di affascinante negli occhi. Aveva un tono di voce allegro, nonostante vivesse in carcere da anni, dolce come il latte e miele.
Era tutto esagerato nella sua testa, lo sapeva perfettamente. Di sicuro non era così, ne era consapevole, ma non poteva farci niente.
Mentre rimaneva fermo davanti all’ingresso, non poteva fare altro che ripetere ogni loro singola interazione. Alcune si mescolavano tra di loro, come un flusso di coscienza, mentre altre erano nitide e pulite. Erano quelle che doveva imprimersi sulle palpebre, così da riviverle ogni qualvolta avesse voluto vederlo e parlargli.
Si era sentito così Apollo quando aveva perso Giacinto e lo aveva reso una pianta, così che tutti lo ricordassero? Quando una forza esterna se lo era portato via e non aveva potuto fare nulla?
Aveva gli occhi gonfi, gli facevano male, sentiva ancora l’odore di Mimmo attorno a lui, la sensazione delle sue guance umide sulle sue mani, dei suoi capelli e della forma del suo viso.
Era stata tutta un’allucinazione? Quei due mesi se li era solo immaginati per sfuggire e superare la sua cotta per Manuel? Doveva essere così, non poteva essere altrimenti, o non sarebbe sopravvissuto.
Simone si sedette su uno dei piloni di pietra vicino ai portabiciclette. Rimase immobile, nonostante sentisse il sole scottargli la testa. Fece diversi respiri profondi e si asciugò gli occhi, premendo i palmi contro di essi.
«Simò, va tutto bene?» La voce di Laura gli arrivò ovattata, come se stesse arrivando da un altro piano d’esistenza. Il ragazzo abbassò le mani e guardò l’amica. Fino a pochi minuti prima, stava esultando con tutta la classe per il bacio tra lei e Matteo, mentre ora sembrava sul punto di andarsi a schiantare in tangenziale. Di nuovo.
Simone boccheggiò, cercando di formare una frase di senso compiuto, ma un singhiozzo amaro gli sfuggì dalle labbra e si limitò a indicare la via dietro di sé. Riprese a piangere, coprendosi di nuovo il viso.
Laura gli si avvicinò e gli fece appoggiare la testa contro di sé, accarezzandogli i riccioli castani, «Shhh, è tutto ok. Non ti preoccupare, ci sono io con te. Ci sono io con te.» Simone accettò le carezze e si aggrappò al braccio dell’amica.
Dopo qualche minuto, la ragazza lo convinse ad andare in bagno a lavarsi la faccia. Egidio non disse nulla quando li vide entrambi nel bagno maschile. Laura stava bagnando dei fazzoletti con acqua fredda e li poggiò entrambi sugli occhi di Simone.
«Sono… sono freddi» disse il ragazzo, ma non se li tolse.
«Lo so. L’ho fatto apposta, così li sgonfiamo un po’. Non vorrai andare in giro con dei pesci palla al posto degli occhi?»
Simone accennò a un sorriso, ma questo morì in pochi secondi. La ragazza si appoggiò al lavandino e si voltò a guardarlo. «Vuoi dirmi cos’è successo? Non sei obbligato se non vuoi.»
«No… non credo proprio di riuscire a… a parlarne. Non ora…»
Laura gli prese le mani e gliele massaggiò, così che non si toccasse i fazzoletti. Se fossero stati ghiacciati, l’effetto sarebbe stato migliore, ma si sarebbero dovuti accontentare, «Te l’ho detto. Quando sarai pronto, io ci sarò sempre. Anche Manuel, se proprio non vuoi parlare con me.»
A sentire il nome del ragazzo, Simone si sentì ancora peggio. In quelle ultime settimane, i due si erano allontanati, vedendosi solo quando uscivano per andare a scuola e per andare a letto. E non era nemmeno assicurato che si vedessero. E sicuramente lo avrebbe rimproverato per aver creduto che frequentare Mimmo fosse una buona idea. Non gli ci voleva quello.
«Vaffanculo a Manuel. Non voglio parlare adesso» ripeté, stringendo le mani di Laura. Era la sua ancora in quel momento.
«Manuel ti ha fatto qualcosa?»
No! Manuel, per una volta, non c’entra nulla. Dopo il casino che aveva combinato con Nina e sua figlia, era un miracolo che non gli avesse spaccato la testa. A lui e suo padre, per aver preso le sue difese. Era suo amico e li aveva accolti, perché non aveva il cuore di farli dormire fuori un’altra notte, ma la cazzata che aveva fatto era da record.
Con quello che aveva fatto per Sbarra l’anno precedente, era sicuro si sarebbe tenuto lontano dai guai con la legge. E invece, aveva avuto la brillante idea di rapire una bambina. Con Ni… aspetta, anche lei la conosceva da pochi mesi. Non poteva giudicare Manuel per aver fatto una cosa del genere, quando lui aveva coperto Mimmo per l’aggressione a inizio anno, dopo avergli parlato venti minuti.
Si sentiva un ipocrita a giudicarlo. Si tolse i fazzoletti dagli occhi e li fissò. Laura disse qualcosa, ma, poiché non gli aveva risposto, ripeté la domanda, «Riguarda Mimmo, il ragazzo della biblioteca?»
La biblioteca era stato il posto dove si era confessato per la prima volta, anche se poi aveva perso qualsiasi tipo di sinapsi coerente per saltarsene fuori con “La Gerusalata Liberemme”. Tasso si doveva essere rigirato nella tomba per quello che aveva detto, soprattutto dopo tutte le sue paranoie nel credere di aver scritto qualcosa di eretico.
Simone si sfregò gli occhi e annuì. Avrebbe voluto dire qualcosa, per non farle credere che Mimmo fosse una cattiva persona. Dio, probabilmente le sarebbe anche piaciuto. Era simpatico, aveva una risata musicale, che illuminava anche la più triste delle giornate, e un sorriso così dolce. Era intelligente, anche se credeva di non esserlo, e avrebbe… avrebbe… voluto solo dirglielo.
La scelta che aveva fatto era stata la cosa migliore che potesse fare, ma, Dio, quanto si pentiva di aver detto tutto a suo padre. Egoisticamente, Simone pensava che se fosse stato zitto, tutto si sarebbe risolto in poche settimane. Mimmo sarebbe uscito, avrebbe terminato la sua pena e sarebbero potuti stare insieme.
Stava per dire qualcosa, quando Manuel bussò alla porta del bagno, attirando la loro attenzione. «Ehi, voi due, noi stiamo andando. Ci raggiungete?» Se aveva notato la faccia arrossata dell’amico, non lo diede a vedere e se ne andò verso l’uscita.
Laura tornò a guardare Simone, «Non sei obbligato a seguirci. Tuo padre capirà…»
«No,» la interruppe il ragazzo, avvicinandosi al lavandino. Aprì l’acqua e si lavò ancora la faccia, asciugandola velocemente con i fogli di carta assorbente messi a disposizione. Non assorbivano granché, ma sempre meglio di uscire con la faccia bagnata, «Ho bisogno di stare in mezzo a voi. Non posso stare da solo, non ora. Davvero Lau, posso farcela.»
Laura non sembrava convinta, ma annuì, prendendogli la mano e stringendogliela forte. «Se hai bisogno, ci sono eh. Ci sono sempre.»
«Lo so. Ti voglio bene». Simone le baciò la fronte e i due raggiunsero i compagni di classe.
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Quella sera, Simone rimase sveglio. Era steso sul suo letto a guardare il soffitto bianco immacolato. Manuel stava dormendo vicino a lui, una delle ultime notti che sarebbe rimasto lì, prima di trasferirsi con Anita a casa con Viola.
Era rimasto sorpreso che i due fossero fratelli. A parte qualche elemento in comune, non potevano essere più diversi di così. E che avessero deciso di considerarsi tali, nonostante vivessero in modo così diverso, era una sorpresa non di meno.
In ogni modo, qualche giorno dopo, Manuel si sarebbe trasferito e la camera sarebbe tornata a essere solo sua.
Era contento che l’amico avesse trovato una casa da chiamare tale, dopo aver perso quella precedente, ma l’idea di restare da solo di nuovo in quella stanza lo stava tenendo sveglio.
«Vuoi dormire? Sento il tuo cervello correre da qui». A quanto pare, Manuel non stava dormendo come credeva.
«Cosa vuoi?»
«Senti, Mimmo tuo se n’è andato, ho capito, ma non puoi fare così. È tutta la giornata che sembri su un altro pianeta.»
Simone sentiva la rabbia di quella mattina riaccendersi, non più rivolta verso di sé, ma verso il deficiente ai piedi del letto. Accese la lampada, si alzò e si diresse verso Manuel, pronto a tirargli un pugno. Se lo sarebbe meritato, dopo quello che aveva fatto settimane prima. «Io faccio il cazzo che mi pare, okay? Non mi sembra di aver bisogno del tuo permesso.»
«Non ho detto che non puoi, ma almeno parlane con qualcuno. Sembra che ti abbiano ucciso il napoletano. Invece è solo andato via.»
Dante doveva aver parlato con Manuel. Non ce la faceva a stare zitto, non ci riusciva, era oltre le sue capacità.
«Non è “solo andato via”. Non è come rapire una bambina ma ti permettono comunque di vederla. Qui Mimmo è come se fosse morto, te lo vuoi mettere in testa?»
Manuel si alzò e gli diede uno spintone, facendolo ricadere sul materasso, «Non ci provare. Lo so che non sono la stessa cosa, non darmi dell’idiota. Ma non è comunque morto. Magari un giorno vi rivedrete.»
Simone scoppiò a ridere. Non gli sembrava nemmeno la sua, se doveva essere sincero. «Ma ti ascolti? Stiamo parlando di una possibilità! Non sai dove sia stato per queste settimane, o che cosa gli abbiano detto! Chissà se fra qualche anno si ricorderà anche solo di me!»
Manuel lo fissò in silenzio, prima di mettersi a ridere. Era una risata genuinamente divertita, come se si stesse gustando quello che aveva appena sentito. «Dio mio, Simò. Quanto puoi essere drammatico? Dubito fortemente che qualcuno possa dimenticarsi di te. Io ne sono il primo esempio, se proprio lo vuoi sapere.»
Eh? Che… che cosa stava dicendo? Aveva fumato qualcosa di più forte quella sera e gli aveva rifilato una sigaretta comune mentre stavano alla piscina?
Invece Manuel sembrava fiero di quello che aveva detto. Teneva il petto in fuori e le mani sui fianchi. Era molto diverso da Mimmo a livello fisico, eppure entrambi avevano questa curiosità e sicurezza che lo accecavano ogni volta che ci pensava.
«Non sembrare così stupito, Balestra. Sei bravo con la bocca e le mani. Posso capirlo.»
«Ma…» Simone alzò una mano, muovendola confuso, «Ma tu hai detto che non ti piacevano i ragazzi.»
A quello, Manuel abbassò lo sguardo, sedendosi sul suo letto, tirandosi le dita e sfregandosi le mani. «Sì, credo di averlo detto. È solo che… non sapevo cosa fare. L’ho capito qualche settimana fa, credo. Sì, poco dopo quello che io e Nina abbiamo fatto. Ci ho pensato seriamente e sì. Io… credo che mi piacciano anche i ragazzi. Sì, è… è così!»
Simone si sentì preso in giro. Non era vero. No, cioè, non era possibile. Stava allucinando di nuovo vero?
«Quello che voglio dire è che… mi dispiace. Mi sono comportato di merda con te e non sono stato un buon amico. Simò, tu sei stato il primo a vedere qualcosa in me che non fosse essere un “caso perso”. A parte mamma e quel pazzoide di tuo padre, intendo.»
Simone gonfiò le guance e sbuffò, sfregando le mani sulle ginocchia. Aveva bisogno d’aria, quel giorno sembrava un lungo, interminabile sogno, o incubo. Non sapeva cosa pensare.
«Con questo, non voglio dire che tu debba darmi una possibilità. Non sarebbe giusto nei tuoi confronti. Ormai ti piace il napoletano, e mi dovrai spiegare per quale motivo. Ma voglio comunque chiederti scusa e dirti che ci sono per te se hai bisogno. Non ho intenzione di abbandonarti ancora.» Manuel strinse le labbra e sospirò, «So che non è molto, ma sono ancora tuo amico, che tu lo voglia o no.»
Simone chiuse gli occhi e si lasciò cadere sul letto. Tornò a fissare il soffitto e in quel momento il fischio nella sua testa si attenuò. Non si zittì e non lo avrebbe fatto per ancora molto. Ma Laura e Manuel sarebbero rimasti al suo fianco, non lo avrebbero fatto affondare.
«Quando vorrai parlarne, sappi che noi ci siamo. Ora buonanotte. Domani Lombardi sicuro m’interroga e vorrei non dormirgli in faccia. Non di nuovo almeno» disse Manuel, mettendosi a letto e spegnendo la lampada.
Simone annuì, anche se non lo poteva vedere. Rimase sveglio per qualche altro minuto, scivolando piano nei ricordi di Mimmo. Erano dolce amari, attorniati però da una luce calda.
Se esiste qualche divinità, spero solo che Mimmo sia al sicuro e che non gli capiti nulla.
I giacinti viola che sua nonna aveva comprato erano tenuti in cucina. Erano fuori stagione di molto, ma la donna aveva premuto per portarli in casa, per “rivitalizzare” l’ambiente e renderlo più colorato. Erano illuminati dalla luce della luna, argentando le foglie e i petali, scivolando su di essi come acqua, in attesa che il sole tornasse a farli risplendere.
